La Via Appia era la più importante delle vie consolari romane dato lo splendore e l’importanza dei suoi monumenti. Era una strada molto battuta poiché metteva in comunicazione la capitale con il sud, dove si trovavano le belle residenze sul mare adibite al riposo e alle vacanze della ricca società romana, imperatore compreso. Con la caduta dell’impero, però, la grande strada subì un veloce degrado e nel IV sec. d.C. si preferì l’attigua Via Asinara. La maggior parte delle persone che percorrevano la Via Asinara (divenuta poi Appia Nuova) pregustava, già prima che la strada cominciasse a salire verso le colline, il profumo del “canellino” e l’odore muschiato di certe grotte dove poter gustare un bicchiere di quel famoso vinello, accompagnandolo con un panino farcito con la “porchetta”.
I Castelli romani e i suoi vini
I Castelli erano già famosi come zona dedicata alla produzione di vini sia in epoca romana che nel Medioevo, periodo nel quale la maggior parte delle vigne dei Castelli era di proprietà di monasteri romani o di abbazie. Le vigne si estendevano a perdita d’occhio su tutta l’area che arriva fino a Velletri e nella Valle di Ariccia, detta anche nei vecchi documenti Valle Aricina. Dalla celebre Abbazia di San Basilio a Grottaferrata si portavano a Roma vini bianchi, rossi, biondi, tutti leggermente aromatici e profumati; l’Abbazia era allora sotto la Curia romana, e proprio qui il cardinale Farnese si riforniva dei vini necessari per le sue residenze romane e limitrofe. Nei secoli successivi il panorama vitivinicolo della zona non cambia. La vicinanza con Roma, la posizione leggermente elevata, la bellezza dei luoghi, decretano il successo di questa zona nella quale nobili e ricchi costruiscono ville e palazzi per passarvi i mesi caldi. I boschi sono meta di uno dei passatempi preferiti dell’alta società, la caccia, e l’abbondanza di selvaggina è tale che riesce ad accontentare tutti i mercati romani, divenendo uno dei piatti preferiti della gastronomia locale. Ciociaria Là dove le colline dei Castelli declinano verso la pianura, dove le vigne lasciano il posto ai campi arati e agli orti, si entra in Ciociaria, l’antica campagna di Roma.
Qui le tradizioni folkloristiche sono vive e inalterate da tempo: feste, canti e cerimonie sono celebrate in alcuni paesi con gli stessi riti di allora; donne e uomini indossano orgogliosamente gli splendidi e coloratissimi costumi cantando e ballando come facevano i loro avi. Sono soprattutto i ciociari che hanno contribuito ad arricchire la cucina popolare romana con i prodotti ortofrutticoli delle loro masserie, con i loro saporiti abbacchi (propriamente l’agnello cotto con precisi principi). E sono loro che, fino a qualche decennio fa, scendevano a Roma per le contrattazioni: a Piazza Colonna ci si riuniva per contrattare i prodotti dell’agro romano ed altresi’ la compravendita dei terreni, a piazza della Rotonda si trattavano gli affari relativi alle pecore, ai pecorai e alle masserie, in piazza della Consolazione, infine, stazionavano i lavoratori agricoli in cerca d’occupazione. Per il contadino della ciociaria gli animali rivestivano un’importanza fondamentale (i buoi, ad esempio, venivano battezzati con nomi importanti, presi in prestito dalla storia, da famosi briganti o semplicemente dalla fantasia) ed oltre che per i lavori dei campi, i bovini erano allevati anche per il macello tanto e’ vero che le loro carni cominciano ad essere presenti nelle ricette di cucina popolare romana; le carni maggiormente consumate, come nel resto del Lazio, rimangono comunque gli animali da cortile e i maiali. Il pasto popolare era rifinito dai prodotti dell’orto, soprattutto legumi, ma anche da prodotti derivanti dalla caccia e dalla pesca.
Fino agli inizi di questo secolo il paese era poverissimo e la maggior parte della popolazione rurale era analfabeta. Si pensi ad esempio alla tecnica dello “staglio”, sistema per conteggiare il lavoro agricolo. Lo “staglio e’ una bacchetta tagliata longitudinalmente, una parte della quale va al datore di lavoro, l’altra al lavoratore; una volta ricongiunte vi si segnava con una tacca la giornata lavorativa. E’ in quest’ambiente socio – culturale che nascono curiose credenze e superstizioni, di carattere gastronomico ma non solo. Ad esempio si riteneva che i dolori alle gambe si curassero con lombrichi fritti, che trovare un baccello con nove fave tenesse lontano il malocchio, che per curare le emorroidi non ci fosse niente di più efficace dell’edera fritta nell’olio. In un’economia poverissima tutto si fabbrica in casa, a partire dalle celebri “ciocie”, le calzature che hanno avuto l’onore di dare il nome al paese. La ciocia si fabbrica con un pezzo quadrato di pelle d’asino o di cavallo cui vengono previamente fatti dei buchi nei quali viene infilato uno spago che avvolge il piede; il sandalo, in questo modo, si assottiglia verso la punta e termina con una curva; la gamba è avvolta fino al ginocchio con tela grigia e ruvida legata con molti spaghi di corda o di filo in modo che la gamba possa muoversi liberamente senza perdere tale calzatura.
La vecchia Ciociaria (con il nome di Campagna e di Marittima) si estendeva a sud della foce del Tevere, dei Colli Albani e dell’Aniene, confinava col mare fino ai Fondi e dall’altra parte aveva a protezione il baluardo degli Appennini, da Subiaco a Sora; da qui il confine costeggiava il fiume Liri fino a Ceprano. I suoi confini nel corso dei secoli sono spesso mutati tanto che intorno al XII sec. tale territorio comprendeva una parte dell’attuale Sabina. Proprio questo altalenare politico fra Regno di Napoli e Stato pontificio ha condizionato fortemente la vita culturale della ciociaria conferendogli un aspetto particolare e dei tratti caratteristici che la differenziano nettamente dalle altre zone limitrofe alla citta’ di Roma.